venerdì 9 maggio 2008

9 maggio 1978


Per non dimenticare Peppino Impastato

Oggi ricorre il 30esimo anniversario dell'omicidio politico di
Peppino Impastato, assassinato brutalmente da sicari mafiosi. La mafia ha ridotto a brandelli il suo corpo ma non ha fermato le sue idee, né piegato il suo coraggio interiore e la sua onestà intellettuale, non ha spezzato la sua dignità, né dissolto la sua energia spirituale.
La mafia ha ucciso Peppino ma non ha soppresso la libertà e i diritti che egli ha sempre propugnato e difeso con tutte le sue forze, battendosi contro l'ingerenza e il controllo oppressivo esercitato dalla criminalità organizzata sulla vita dei cittadini, contro l'occupazione militare mafiosa del territorio e della società, contro la speculazione edilizia, il malaffare e la corruzione politica.
La mafia non è riuscita ad annientare il simbolo ideale e politico che ancora oggi, a distanza di trent'anni, Peppino rappresenta per le nuove generazioni. Le quali lo hanno riscoperto grazie al celebre film diretto da
Marco Tullio Giordana, "I cento passi", nel quale il ruolo di Peppino è magistralmente interpretato dal brillante attore Luigi Lo Cascio.
Per chiunque voglia saperne di più su Peppino, in omaggio alla sua memoria e alle sue idee intramontabili, vi propongo una raccolta di link.
PEPPINO IMPASTATO
UCCISO IL 9 MAGGIO 1978
LE SUE IDEE NON MORIRANNO MAI
"LA MAFIA E' UNA MONTAGNA DI MERDA"
"I CENTO PASSI"
Infine, suggerisco di consultare i seguenti siti:
www.peppinoimpastato.com
www.centroimpastato.it
www.retedigreen.com/index-8.html

HASTA SIEMPRE PEPPINO!

domenica 27 aprile 2008

25 aprile

RESISTENZA, LIBERAZIONE, COSTITUZIONE, DEMOCRAZIA DIRETTA

Quest'anno ricorre il 60° anniversario della Costituzione italiana del 1948: 60 anni ben portati, si potrebbe dire...
Personalmente, sono convinto che la nostra Costituzione non abbia bisogno di lifting o rifacimenti, non debba essere aggiornata o revisionata, tanto meno abolita (come insinuano i suoi detrattori), ma deve essere semplicemente e finalmente attuata. Solo applicando nella realtà concreta i dettami costituzionali sarà possibile far rinascere il nostro paese, sarà possibile un’effettiva emancipazione in senso progressista della società in cui viviamo, liberando le straordinarie potenzialità civili, culturali, artistiche e spirituali presenti in essa, ma anche le forze materiali e produttive che sono imprigionate ed umiliate nell’attuale fase storica di conservazione politica, se non di reazione e di imbarbarimento vigente su scala non solo nazionale, ma internazionale.
Tuttavia, se devo essere sincero, sono piuttosto perplesso e pessimista a riguardo. Anzitutto, perché ho sempre pensato che la nostra bella Carta Costituzionale sia in qualche misura eversiva ed inapplicabile nell’attuale ordinamento economico-capitalistico, segnato da profonde ed insanabili contraddizioni, disuguaglianze ed ingiustizie sociali e materiali, che si possono eliminare solo abbattendo e rovesciando l’intero sistema economico-politico e sociale che le ha generate e contribuisce a riprodurle e perpetuarle nel tempo.
In secondo luogo, con il quadro parlamentare appena uscito dalle recenti elezioni politiche, francamente non riesco a far finta di nulla e non posso non nutrire seri dubbi sulla possibilità di attuare finalmente il dettato costituzionale. Invece, mi pare più facile immaginare e prefigurare un’iniziativa per stravolgere il testo della Costituzione attraverso una sorta di “grande inciucio”, cioè un’ampia intesa parlamentare di stampo “veltrusconiano” sul versante delle cosiddette “riforme costituzionali” (ma sarebbe più corretto definirle “controriforme costituzionali”), tanto attese ed invocate (non solo) dalla coalizione di centro-destra guidata da Berlusconi, Bossi e Fini.
Tuttavia, a parte queste riflessioni politiche pessimistiche, faccio prevalere ciò che Gramsci designava come “l’ottimismo della volontà”. Per cui, non solo in qualità di semplice cittadino, ma anche in veste di insegnante, sono interessato a trasmettere alle nuove generazioni i valori ideali insiti nella Costituzione. Di cui occorre far conoscere ed apprezzare, in chiave anche formativa, anche la bellezza estetica e poetica della sua scrittura. Non a caso, alla stesura del testo costituzionale contribuirono alcune tra le migliori menti politiche e letterarie dell’epoca (tra i vari nomi, voglio rievocare la figura emblematica di Piero Calamandrei).
La Costituzione è senza dubbio la madre della democrazia italiana, una democrazia scalcagnata, monca e malandata per vari motivi.
La Costituzione ne incarna idealmente il ricco patrimonio etico-valoriale, e leggerla e rileggerla (magari fino alla nausea) è il miglior modo per festeggiarla e proporla ai giovani, ed è forse il miglior modo per educare ed ispirare le nuove generazioni.
Pertanto, approfitto della ricorrenza per denunciare una grave mistificazione ideologico-strumentale che si perpetua da anni nel nostro sciagurato paese. Quella di occultare le origini della democrazia in Italia, benché istituita solo sulla carta. E' dunque opportuno ricordare che la Costituzione del 1948 (e, con essa, la democrazia italica, sebbene solo formale) affonda le sue radici storiche e ideali nella Resistenza partigiana contro l’occupazione e l’oppressione nazi-fascista imposta durante la seconda guerra mondiale. Dalle ceneri della monarchia sabauda e della dittatura fascista di Benito Mussolini, è nata la Carta Costituzionale ed è in qualche modo risorta la civiltà democratica del popolo italiano. Il 25 aprile è senza dubbio una festa partigiana, ossia di parte, e non può essere diversamente. Pretendere che il 25 aprile diventi una "festa di tutti", una sorta di ricorrenza "neutrale ed imparziale", equivale a snaturare e cancellare il valore simbolico e politico di quella che rappresenta la Festa per antonomasia della Resistenza partigiana, la Festa antifascista per eccellenza. Infatti, il 25 aprile si festeggia, vale a dire si dovrebbe rievocare (e, in qualche misura, si dovrebbe rinnovare) la vittoria della Resistenza popolare partigiana contro l'invasione nazista e contro i fascisti che flagellarono e tormentarono l’Italia per un lungo, tragico ventennio, conducendo il nostro paese alla rovina materiale e spirituale, costringendo il nostro popolo alla sventura e alla catastrofe della seconda guerra mondiale, laddove intere generazioni di giovani proletari furono usati come carne da macello per arricchire ed ingrassare una ristretta minoranza di affaristi, speculatori e guerrafondai senza scrupoli.
Da quella Liberazione nacque la Costituzione del nostro paese, scritta non tanto con la penna quanto con il sangue di numerose donne e uomini che sacrificarono coraggiosamente la propria vita per la libertà delle generazioni successive: donne e uomini chiamati "partigiani" proprio in quanto schierati e militanti da una parte ben precisa, ossia contro il fascismo, l'imperialismo e la guerra.
Il carattere profondamente antifascista e partigiano, democratico e pluralista, egualitario e progressista, ma anche pacifista e internazionalista della Costituzione, la rende un testo all’avanguardia, se non addirittura eversivo e rivoluzionario sul piano politico internazionale, ma è anche il motivo principale per cui essa è assai temuta e osteggiata nei settori politicamente più oltranzisti e reazionari della società italiana, ed è la medesima ragione per cui essa è tradita e disattesa nella realtà concreta.
Non intendo elencare i vari articoli della Costituzione che sono ripetutamente negati e violati, a cominciare dall’art. 11, in cui emerge lo spirito nettamente pacifista e internazionalista della nostra Costituzione: “l’Italia ripudia la guerra (…)”, è l’incipit dell'articolo.
Questa è una lezione assai preziosa della nostra storia che oggi, in tempi alquanto bui, segnati dall'indifferenza e dal fatalismo, dall'apatia e dall'antipatia politica, da più fronti e posizioni di stampo revisionista e, dunque, cripto-fascista, si tenta di mettere in discussione, se non addirittura cancellare e negare alle giovani generazioni. Questo "fatalismo", tanto diffuso oggi tra la gente, è il peggior nemico della gente stessa, nella misura in cui induce a pensare che nulla possa cambiare e che tutto sia già deciso da una sorta di destino superiore, da una forza trascendente, contro cui i miserabili e gli umili sarebbero assolutamente impotenti, ma così non è.
In tema di fatalismo, indifferenza e apatia politica, non si può non citare un famoso pezzo giovanile di Antonio Gramsci, intitolato "Odio gli indifferenti", in cui il grande comunista sardo scriveva che vivere vuol dire "Essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L'indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. L'indifferenza è il peso morto della storia (...) Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti". Questo è senza dubbio il miglior messaggio che si possa offrire e trasmettere alle giovani generazioni, una sorta di inno che attesta in forma lirica e poetica, ma nel contempo, in modo fermo e inequivocabile, l'amore per la vita e la libertà, intese e tradotte in termini di partecipazione attiva, concreta e diretta alle decisioni che riguardano il destino dell'intera collettività umana.
Sempre in materia di assenteismo e di non partecipazione alla vita politica, rammento un bellissimo pezzo di Bertold Brecht, che scriveva: "Il peggior analfabeta è l'analfabeta politico". Non c'è nulla di più vero e di più saggio. Brecht sostiene che l'analfabeta politico "non sa che il costo della vita, il prezzo dei fagioli, del pesce, della farina, dell'affitto, delle scarpe e delle medicine dipendono dalle decisioni politiche. L'analfabeta politico è talmente asino che si inorgoglisce, petto in fuori, nel dire che odia la politica. Non sa, l'imbecille, che dalla sua ignoranza politica nasce la prostituta, il minore abbandonato, il rapinatore e il peggiore di tutti i banditi, che è il politico disonesto, leccapiedi delle imprese nazionali e multinazionali.". Ed io aggiungo: "delle imprese locali".
Nella circostanza odierna mi preme rilanciare ed esaltare la Politica (con la P maiuscola) in quanto espressione della volontà popolare e della libera creatività dell’animo umano, che si realizza nel confronto interpersonale, nella pacifica convivenza sociale e nella dialettica democratica e pluralista tra persone libere ed uguali sul versante economico-materiale, ma ovviamente diverse sotto il profilo etico-spirituale e culturale. Inoltre, la Politica dovrebbe essere soprattutto un mezzo di aggregazione e di partecipazione sociale, uno strumento concreto, diretto e corale per intervenire sui processi decisionali che interessano l’intera comunità; è una modalità di socializzazione tra gli individui, la più elevata e raffinata forma di socialità umana. Del resto, l’antica etimologia del termine, dal greco “Polis” (ossia: città), indica il senso della più nobile e sublime tra le attività proprie dell’uomo, denota la suprema manifestazione delle potenzialità e delle prerogative attitudinali dell’essere umano in quanto essere sociale. Tale somma ed eccelsa capacità dell’uomo si estrinseca nella Politica in quanto organizzazione dell'autogoverno della Città.
Il senso originario della Politica si è ormai deteriorato, tralignando nella più ignobile e squallida “professione”, ovvero nell’esercizio del potere fine a se stesso, un potere riservato a pochi “addetti ai lavori”, ai carrieristi e agli affaristi della politica (con la p minuscola). Quella che un tempo era considerata una nobile arte ed un’occupazione elevata dell’uomo, la Politica con la “P” maiuscola, si è totalmente svuotata di senso ed oggi è percepita e praticata quale mezzo per impadronirsi della città e delle sue risorse, umane, materiali e territoriali, ossia una carriera da intraprendere se si vuole mettere le proprie luride mani sulle ricchezze del bilancio economico del Comune che, come tale, dovrebbe appartenere a tutti, un bene gestito direttamente dalla comunità dei cittadini.
La Nuova Resistenza da realizzare oggi è esattamente l'opposizione a questo stato di cose, è la rivolta contro una visione e una pratica del potere in quanto appannaggio di una ristretta cerchia di potenti e di privilegiati, ossia i padroni del Palazzo. Tale situazione va respinta e contrastata con forza, perché quel soggetto organizzato in gruppo, comitato o partito politico, convenzionalmente definito “ceto politico dirigente” (ma sarebbe più giusto chiamarlo "digerente"), non appena ha conquistato il privilegio derivante dal potere esclusivo sulla Città, si disinteressa altamente del bene comune per occuparsi semplicemente dei propri loschi affari di casta, di corporazione o di élite, oppure di singoli individui. Questo stato di corruzione della politica, che non è più un’esperienza di autogoverno della comunità dei cittadini, ma un interesse privato ed egoistico di una minoranza sempre più circoscritta, è la causa principale che ha generato un sentimento di crescente indifferenza e disaffezione dei cittadini verso le vicende della politica, ovvero del governo della Polis, in quanto rappresentativo degli interessi di pochi affaristi e trafficoni, nella misura in cui tale vicende e tali attività sono recepite come estranee e distanti dagli interessi collettivi della gente.
Pertanto, occorre rilanciare l’idea dell’autogestione popolare e dell’autogoverno della comunità dei cittadini, guardando alla viva esperienza dei Municipi autonomi zapatisti e sperimentando nella realtà delle piccole comunità locali l’idea della politica come rifiuto e critica radicali del potere scisso dalla collettività, ossia come partecipazione diretta di aree sempre più vaste della popolazione ai processi decisionali, a cominciare dai canali di controllo e gestione delle spese economiche del bilancio comunale.
La grandiosa utopia della democrazia diretta a livello locale, oggi non solo è possibile ma necessaria, di fronte al nuovo, prepotente fenomeno di natura autoritaria ed antidemocratica, determinato dall’avvento di un nuovo colonialismo che ha generato la crisi e il declino della sovranità democratica, seppure solo formale, degli Stati nazionali. I quali sono di fatto soppiantati dal potere smisurato di organismi economici sovranazionali che dirigono e controllano le dinamiche dell’economia di mercato e dei suoi assetti più propriamente bancari e finanziari, ormai affermati e dominanti su scala mondiale.
Questo fenomeno di globocolonizzazione neocapitalista ha determinato un pauroso incremento e un’ascesa inarrestabile del potere dei gruppi capitalistico-finanziari più forti, in modo particolare delle corporation multinazionali, con danni e costi inimmaginabili e irreparabili per i diritti civili e sindacali, le libertà democratiche, i redditi dei lavoratori del sistema economico-produttivo, di quello industriale prima di tutto, la cui condizione si fa sempre più precaria, vulnerabile e facilmente ricattabile.

venerdì 7 dicembre 2007

Prosegue il genocidio della popolazione di Gaza





Sale a 16 il drammatico bilancio delle vittime palestinesi dei bombardamenti israeliani effettuati da sabato scorso a oggi. I medici della Striscia hanno riferito che l'esercito israeliano sta facendo uso di armi non convenzionali. Da sabato scorso, e quotidianamente, le forze israeliane assassinano civili e combattenti palestinesi in attacchi di cielo e di terra contro il nord e il sud della Striscia. All'emergenza feriti creata dai bombardamenti si aggiunge la chiusura di ospedali e centri medici causata dalla mancanza di medicine, di apparecchiature sanitarie funzionanti (non arrivano più i pezzi di ricambio e le sale operatorie sono senza anestetici), di energia elettrica e di carburante. Stanno chiudendo anche i distributori di benzina e di gas perché i rifornimenti sono esauriti a causa della drastica riduzione decisa dal governo democratico di Israele. La popolazione non può lasciare la Striscia ormai da mesi e neanche spostarsi all'interno. Manca il gas e l'elettricità anche nelle abitazioni. All'attuale tragedia, si sono aggiunte le dichiarazioni del comandante dell'esercito israeliano, Gabi Ashkenazi: è pronta l'invasione di terra contro la Striscia. E l'Europa sta a guardare il lento sterminio degli abitanti di Gaza. Evidentemente la Storia non ha insegnato nulla.

martedì 6 novembre 2007

SarkoRifondazione


E’ NATA SARKORIFONDAZIONE
Si è ufficialmente costituita la SarkoRifondazione, ovvero la Rifondazione nazionalsocialista, guidata dal “saggio” dottor Berty, Nichi e Milziade, i tre "valorosi moschettieri" del Re-alismo e dell'opportunismo "rosso"... Rosso dalla vergogna! Come vergognosa e ripugnante è la campagna xenofoba di istigazione all'odio razziale e di classe, scatenata dalla stampa di regime (centro-destra e centro-sinistra borghese in coro), che sta producendo i primi risultati riconoscibili in particolare nella
rappresaglia di stampo squadrista contro i rumeni, e in generale in una vera e propria “guerra interna tra sottoproletari”: rom contro rom, rom slavi contro rom rumeni, a loro volta questi contro rom italiani, ancora rom contro gli abitanti delle periferie metropolitane, e via discorrendo. Ho letto l'intervista rilasciata sul quotidiano La Repubblica dal senatore Milziade Caprili in merito alla vicenda rom. Può un alto rappresentante del PRC (ricordo che trattasi di un senatore della Repubblica italiana, per l'esattezza del vicepresidente del Senato), esponente di un partito della cosiddetta "sinistra radicale", da sempre schierato (evidentemente solo a chiacchiere) dalla parte dei deboli e degli oppressi, pronunziare parole così demagogiche e populiste - "la sinistra deve ritrovare una connessione sentimentale con il proprio popolo" -, esprimendosi come un volgare e comune forcaiolo, quasi peggio di un leghista? Ecco un'altra frase-"capolavoro" degna di un qualsiasi demagogo razzista: "gli altri (rom, ndr) che non hanno reddito dovrebbero essere, nel rispetto di tutti i diritti della persona (e ci mancherebbe pure) rimandati in Romania". In base a simili ragionamenti è possibile giustificare persino le storiche deportazioni di massa eseguite a danno degli immigrati italiani giunti nell'America degli anni '20 del secolo scorso, quando alla guida del governo federale c’era il presidente Woodrow Wilson. Colui che istituì la segregazione razziale nel paese, per la prima volta da quando Abrahm Lincoln avviò la desegregazione nel 1863. Tornando all'Italia del 2007 e alle dichiarazioni rilasciate dal senatore "comunista", confesso che in tale intervista ho letto solo un passaggio davvero condivisibile, in quanto corrisponde a un dato di fatto assolutamente innegabile ed incontrovertibile: “I campi (rom, ndr) non stanno nei quartieri bene, ma nelle periferie". Giustissimo! E allora, cosa si dovrebbe fare? Deportare in massa i nomadi? E dove? Espellerli e rispedirli al mittente, ossia nella madre patria (anzi, matrigna) che prima li ha emarginati, perseguitati, maltrattati ed espulsi, ed ora li "difende" solo perché non vuole riprenderseli? Ma che fine hanno fatto i principi di "accoglienza", “integrazione”, "tolleranza", "giustizia" e quant'altro ancora, che da sempre hanno caratterizzato ed ispirato le posizioni politicamente corrette della sinistra? Oggi quei contenuti ideali sono disprezzati come "arnesi vecchi", anacronistici, quindi da rottamare. Quei proclami (tuttavia utili in campagna elettorale) sono andati a farsi benedire in funzione di squallidi interessi di opportunismo elettorale e in nome della salvaguardia a tutti i costi di un governo che ormai ha un sapore più sinistro (nel senso di losco, nefasto, orrido) che di sinistra. Quegli assiomi sono stati ancora una volta traditi, calpestati e cancellati, come è accaduto ad altri valori e comportamenti che appartengono da sempre al corredo ideale e al patrimonio storico-culturale della sinistra, intesa non solo come "sinistra radicale", ovvero "estrema", bensì come forze politiche tradizionalmente legate all'arco costituzionale e parlamentare borghese. Partiti che ormai sono approdati (a proposito di “ap-Prodi” e "migrazioni politiche") nel Partito Demo(n)cratico, di cui avevo già previsto da tempo l'involuzione in senso sicuritario e xenofobo. Una metamorfosi che ormai si è manifestata chiaramente e concretamente (non solo attraverso i sindaci-sceriffi di centro-sinistra), ma che purtroppo sta contagiando anche gli ambienti di quella "sinistra" che non si riconosce nel veltronismo. Infatti, benché intelligenti (almeno si presume che lo siano), il senatore Caprili e gli altri esponenti del PRC schierati apertamente su posizioni difformi rispetto alla linea assunta da Piero Sansonetti, direttore del giornale Liberazione (che è o no l'organo ufficiale di Rifondazione?), si stanno facendo suggestionare e turlupinare dalla campagna xenofoba e razzista condotta negli ultimi giorni dalla stampa borghese. Detto francamente, ho provato solo sentimenti di orrore, disgusto, rabbia e indignazione nel leggere quelle dichiarazioni, rilasciate oltretutto da un soggetto che osa definirsi "comunista"! Mi domando, dunque, quale senso e quale valore rivesta ed esprima ancora tale concetto per taluni sedicenti "compagni", nella fattispecie per un senatore del PRC-Sinitra Europea, nonché vicepresidente del Senato della Repubblica. Siamo ridotti davvero molto male! Ormai bisogna prendere piena coscienza della metamorfosi "faustiana" che si sta compiendo in alcuni settori del PRC, investendo in modo particolare alcuni suoi esponenti ad altissimo livello. Una mutazione regressiva che si sta spostando addirittura sul versante antropologico-culturale e morale, direi anche sul piano psicologico-emotivo, oltre che sotto il profilo ideologico e pratico-politico. In questo caso l'involuzione si è già consumata da tempo.

lunedì 15 ottobre 2007

Analfabetismo politico


ELEZIONI PRIMARIE NEL PARTITO DEMO(N)CRATICO

Il genio profetico di Pier Paolo Pasolini preconizzava (a ragione) che “il fascismo potrà risorgere a condizione che si chiami antifascismo”. Eccolo servito. Si chiama PD: Partito Demo(n)cratico. Tale partito non è ancora nato, ma già si sta rivelando una forza politicamente subdola e pericolosa, perché concretamente antidemocratica e soprattutto antioperaia. Purtroppo si confermerà tale nel tempo. Nei prossimi anni il PD costituirà il peggior avversario politico dei diritti, degli scopi e degli interessi della classe operaia e dei lavoratori salariati in Italia, soprattutto dei giovani lavoratori precari ed extracomunitari. Vedrete, gente di poca fede! Per rendersene conto basterebbe riflettere liberamente su alcune proposte politiche di stampo sicuritario e poliziesco avanzate da Walter Veltroni durante la sua campagna elettorale, sui temi della sicurezza e dell’ordine pubblico, in materia di immigrazione e su altre questioni concernenti il lavoro e la convivenza civile e democratica nella nostra società. Si tratta di ipotesi e contenuti palesemente anticostituzionali, che nemmeno la peggior Lega di Bossi, Borghezio e Calderoli si sarebbe mai azzardata a promuovere. Eppure, il sindaco-sceriffo di Roma rappresenta il futuro leader di un partito che osa battezzarsi “democratico” ed egli stesso si spaccia ed osa definirsi un politico “buonista”. Anzi, molti lo rimproverano proprio di essere fin troppo “buonista”. Figuriamoci allora se fosse stato un “cattivista”!... Ma veniamo alle primarie nel PD. Già il fatto che per votare occorre pagare un euro, quasi fosse un balzello supplementare da sommare agli altri tributi, mi puzza tanto di estorsione e racket mafioso, quasi una sorta di “pizzo politico” da versare ai boss della malavita politico-istituzionale del “centro-sinistro”, ormai dominato ed infestato dal PD che sta per: Partito Dirigista, Partito Danaroso, Partito Delinquenziale, Partito Demoniaco, Partito Dolo(ro)so, Partito Deceduto… Tutto, tranne un Partito autenticamente Democratico. Non c’è proprio nulla da fare. Il nostro è un popolo ignorante, rozzo ed analfabeta. Con il termine “analfabetismo” mi riferisco esattamente all’analfabetismo politico, quello che Bertold Brecht disprezzava come il peggior analfabetismo. E aveva ragione! Le elezioni primarie del PD non costituiscono affatto un momento di grande partecipazione democratica, ma segnano ufficialmente il decesso della “democrazia” nel nostro paese, se mai questa fosse stata viva. Una “democrazia” morta e sepolta, grazie anche al Partito (anti)Democratico. Un destino cinico e beffardo, quello della “democrazia” italiana, un democrazia da sempre monca e incompiuta, ed ora definitivamente azzerata e priva di senso. Votare alle primarie del PD è peggio che votare per il Grande Fratello o un altro reality-show: equivale a una farsa grottesca, in cui partecipano e si esibiscono tanti ridicoli “bamboccioni” manovrati da vecchi burattinai (massonico-mafiosi e piduisti, filo-golpisti, clerico-fascisti etc.), vecchie volpi demo(n)cristiane. Questo discorso vale per le primarie sia a livello locale, sia ai livelli superiori, fino al vertice nazionale. Dove trionferà il veltronismo, versione aggiornata del populismo più diabolico e “sinistro”: il nuovo fascismo.


L'analfabeta politico
Il peggior analfabeta è l’analfabeta politico. Egli non sente, non parla, né s’interessa degli avvenimenti politici. Egli non sa che il costo della vita, il prezzo dei fagioli, del pesce, della farina, dell’affitto, delle scarpe e delle medicine, dipendono dalle decisioni politiche. L’analfabeta politico è talmente somaro che si inorgoglisce e si gonfia il petto nel dire che odia la politica. Non sa, l’imbecille, che dalla sua ignoranza politica nasce la prostituta, il minore abbandonato, il rapinatore e il peggiore di tutti i banditi, che è il politico disonesto, il mafioso, il corrotto, il lacchè delle imprese nazionali e multinazionali.
Bertoldt Brecht

venerdì 12 ottobre 2007

La violenza di classe


LA VIOLENZA ISTITUZIONALIZZATA

Una persuasione comune, molto in voga in alcuni ambienti della sinistra radicale, evoca l'idea di una spirale “guerra-terrorismo” che, così come è stata convenzionalmente definita, costituirebbe una minaccia incombente sull'intera umanità. Tuttavia, tale apparente dicotomia non rappresenta e non offre un’effettiva alternativa tra due differenti opzioni, ma al contrario rivela due facce della stessa medaglia. In effetti si tratta di un mostruoso parto gemellare generato dal medesimo sistema, un'economia di guerra e di riarmo che ha un incessante bisogno della violenza organizzata in varie forme, per rigenerarsi, ricostituirsi e perpetuarsi all’infinito. Da questo meccanismo perverso discende la necessità di una sorta di produzione su scala industriale della violenza, del delitto, del "mostro", che serve quale facile e comodo capro espiatorio atto giustificare la richiesta e l'approvazione, da parte dell'opinione pubblica (nazionale e internazionale), di nuovi interventi armati da compiere sia all'interno che all'esterno della vigente società occidentale capitalistico-guerrafondaia. In tal modo nascono, si formano e ritrovano una precisa ragion d'essere i vari Saddam Hussein, Bin Laden & soci, ossia i cosiddetti "criminali" che diventano una sorta di spauracchio ufficiale, perfettamente funzionale ad una logica di riproduzione della violenza legalizzata e istituzionalizzata atta a conservare e perpetuare i rapporti di comando e subordinazione esistenti all'interno (su scala nazionale) e all'esterno (su scala globale) della società capitalistico-borghese imposta dai bianchi occidentali.

Ogni anno, nel periodo di Luglio, si ripete e si rinnova una sorta di rituale celebrazione, durante la quale vengono rievocate le drammatiche giornate di Genova nel 2001, segnate dalle terribili violenze della repressione poliziesca, dall’assalto alla scuola Diaz, dalle torture nel carcere di Bolzaneto, dall’assassinio di Carlo Giuliani, ecc. Qualcuno potrebbe obiettare che bisogna rammentare anche le violenze dei black-bloc (ma su tali vicende non si è mai fatta luce, dato che sussistono numerose zone d’ombra, tanti misteri e lati oscuri che avvolgono la realtà dei fatti), violenze che sono anch’esse un parto degenere di un sistema sempre più marcio, putrido e incancrenito, capace di produrre in quantità industriale soprattutto “merci” come la violenza, l’odio e la distruzione, in quanto ne ha bisogno come l’aria che respiriamo, per poter giustificare la sua stessa esistenza. Una violenza che scaturisce e si alimenta anche e soprattutto attraverso l'incessante opera di disinformazione e di terrorismo psicologico che viene quotidianamente esercitata dai mezzi di comunicazione di massa per mantenere l'opinione pubblica in uno stato di tensione continua e permanente, così come è accaduto in occasione della manifestazione antimilitarista svoltasi a Vicenza il 17 febbraio scorso. La risposta del movimento è stata fantastica, direi quasi disumana per la superiorità politica dimostrata, per la lezione di civiltà, di buon senso e di forza morale che ha saputo impartire, mettendo a tacere quanti avevano profetizzato, preparato e, in un certo senso, auspicato sciagure, lutti ed eventi funesti. La violenza fa parte di una società che la disprezza, la vitupera e la demonizza quando a praticarla sono gli altri (in passato i Cinesi, i Vietnamiti, i Cubani, oggi gli Arabi, gli islamici, oppure i negri, i proletari, gli oppressi in genere, e via discorrendo), ma viene autorizzata in termini di legge, di diritto e di potere istituzionale, quando essa (la violenza) è opera del sistema stesso, in quanto intervento armato necessario a mantenere e perpetuare l'ordine costituito all'interno (in termini di repressione poliziesca) e all'esterno (in termini di guerre, ovvero come gendarmeria internazionale).

In tal senso la violenza viene disapprovata ed esecrata quando è opera d'altri. Si pensi alla rivolta di massa che oltre un anno fa è esplosa con furore nella banlieue parigina, espandendosi rapidamente ad altre periferie urbane della Francia. Sempre in Francia, tempo addietro abbiamo assistito alla nascita di un movimento di protesta e di contestazione giovanile che ha assunto proporzioni di massa, simili, benché non paragonabili, all'esperienza storica del maggio 1968, nella misura in cui le cause e il contesto erano senza dubbio differenti. Per comprendere tali fenomeni sociali così complessi e difficili, occorre rendersi conto di ciò che sono effettivamente diventate le aree metropolitane suburbane in Francia (ma il discorso vale anche altrove, in Europa e nel mondo), cioé assurdi e ignobili luoghi di ghettizzazione e alienazione di massa. Per capire bisognerebbe calarsi in quella realtà quotidiana dove il disagio sociale, il degrado urbano e morale, la violenza di classe, la precarietà economica e il vuoto esistenziale, la disperazione e l’emarginazione dei giovani (soprattutto di origine extracomunitaria) costituiscono il background materiale e ambientale che genera inevitabilmente manifestazioni di rabbia, di ribellione e di guerriglia urbana. Invece, tali vicende vengono bollate in modo banale e superficiale come atti di “teppismo”, di “delinquenza” o addirittura di “terrorismo”, secondo parametri razzisti e classisti tipici di quella mentalità ipocrita e benpensante che da sempre appartiene alla borghesia bianca occidentale, non solo della Francia, ma dell’Europa e dell'intero occidente. Insomma, tutte queste vicende sono strettamente legate da un comune denominatore: la violenza, nella fattispecie la violenza istituzionalizzata e il monopolio di legalità imposto nella società. Su tale argomento varrebbe la pena di spendere qualche parola per avviare un ragionamento storico, critico e politico il più possibile serio e rigoroso. Io voglio provarci, partendo ovviamente dal mio punto di vista e avvalendomi delle mie capacità analitiche, delle mie conoscenze ed esperienze.

La violenza, intesa come comportamento individuale, ha senza dubbio un fondamento più profondo e complesso, insito nella struttura sociale. Ad esempio, nella realtà delle società capitaliste, la violenza del singolo, la ribellione giovanile apparentemente priva di cause, l’alienazione, la follia, il vandalismo, oppure il teppismo negli stadi di calcio (o ad una manifestazione), la criminalità comune, la perversione di quei soggetti qualificati come “mostri”, sono sempre il frutto (marcio) generato da una formazione sociale che ha bisogno di produrre odio e violenza; sono la manifestazione di un contesto storico-sociale che, per sua natura, crea conflittualità, contribuendo alla depravazione dell’animo umano che in tal modo viene ad essere intimamente condizionato dall’ambiente esterno. Dunque la violenza non è una questione di malvagità o perversione individuale, ma è un problema sociale, ovvero costituisce la facciata esteriore e fenomenica dietro cui si camuffa la violenza organizzata della società, è lo strato superficiale sotto cui giace, si espande e si incancrenisce la corruzione dell’ordine costituito. In effetti è alquanto difficile determinare e concepire la violenza come un comportamento naturale, etologico, immutabile, dell’essere umano, in quanto è la natura stessa dell’organizzazione sociale, il vero principio che genera i cosiddetti “mostri”, i criminali, i violenti in quanto singoli individui, che sono spesso quei soggetti più labili e vulnerabili sotto il profilo psichico ed emotivo, che finiscono per diventare il "capro espiatorio" su cui si scaricano tutte le tensioni, le frustrazioni e le conflittualità insite, in forma latente, nell'ordinamento sociale vigente.

La visione che attribuisce alla “cattiveria umana” la causa dei mali e dei problemi del mondo, è soltanto un’ingenua e volgare mistificazione.
Il tema della violenza è talmente vasto, enorme, complesso, da rivestire un’importanza centrale nell’ambito dello sviluppo storico dell’intera umanità.
Sin dalle sue origini l’uomo ha dovuto immediatamente attrezzarsi per fronteggiare la violenza esercitata dall’ambiente naturale nel quale era inserito: il pericolo di aggressione da parte delle belve feroci, le avversità atmosferiche, le catastrofi e le sciagure naturali più terrificanti, quali terremoti, bradisismi, vulcanismi, frane, incendi ecc., i suoi bisogni fisiologici da soddisfare, ossia la fame, la sete, la necessità di procreare e via discorrendo. In seguito, con il trascorrere dei secoli, l’uomo è riuscito a compiere un immane progresso tecnologico e materiale che lo ha affrancato dal suo primitivo asservimento alla natura, rovesciando, in un certo senso, il rapporto originario tra l’uomo e l’ambiente. Oggi, infatti, è soprattutto l’uomo che arreca violenza alla natura, ma la relazione rischia di invertirsi nuovamente, a scapito dell’uomo.

Durante la sua lunga evoluzione culturale e materiale, l’umanità ha creato e conosciuto svariate esperienze di violenza: la guerra, la tirannia, l’ingiustizia sociale, lo sfruttamento, la fatica quotidiana per la sopravvivenza, il carcere, la repressione, la rivoluzione, fino alle forme più rozze ed elementari come il teppismo, la prepotenza, la sopraffazione del singolo su un altro singolo. Tuttavia, tali fenomeni così disparati, pur nella loro molteplicità e nelle loro apparenti contraddizioni, si possono ricondurre ad un’unica matrice storico-causale, vale a dire la natura intrinsecamente violenta, ingiusta e disumana della struttura sociale e materiale su cui si erge l’organizzazione della vita e dei rapporti umani nel loro incessante divenire storico, la cui principale forza motrice risiede nella violenza della lotta di classe, ossia nello scontro e nella competizione tra varie forze economico-sociali per instaurare il controllo e il dominio nella società. Tale scontro di classe si estrinseca sia sul terreno politico-materiale, sia sul versante teorico-culturale, ed è una lotta per la conquista del potere politico-sociale ed economico-materiale, ma altresì per l'affermazione di un'egemonia ideologico-intellettuale all'interno della società.

Il problema fondamentale della violenza nella storia umana (che è scisso dal tema della violenza nel mondo preistorico) è costituito dall’ingiustizia e dalla violenza insite nel cuore delle società classiste, le quali si basano sulla divisione sociale dei ruoli lavorativi e sullo sfruttamento materiale di una classe sul resto della società. Solo quando lo sviluppo delle capacità economico-produttive e tecnologiche della società, avrà raggiunto un livello tale da permettere il superamento e l’eliminazione della ragion d’essere che finora ha giustificato e determinato lo sfruttamento del lavoro servile e del lavoro salariato, l’umanità potrà compiere il grande balzo rivoluzionario che consisterà in un processo di liberazione dalla violenza dell’ingiustizia e dello sfruttamento di classe. Ebbene, è un dato di fatto che tali condizioni, connesse al progresso tecnico-scientifico ed alla produzione delle ricchezze sociali, siano già presenti nella realtà oggettiva, ma sono mistificate e negate dal persistere di un quadro (ormai obsoleto) di rapporti di supremazia e sottomissione tra le classi sociali. In tal senso, il potere borghese non è mutato, i suoi rapporti all’interno e all’esterno sono sempre improntati alla violenza. Esso continua a reggersi sulla violenza, in modo particolare sulla forza bruta (legalizzata) di strutture e di istituzioni repressive quali, ad esempio, il carcere, la polizia, l’esercito. Nel contempo, il potere borghese ha imparato ad impiegare altre forme di controllo sociale, più morbide e sofisticate, addirittura più efficaci, come la televisione e i mass-media. Oggi, infatti, molti Stati capitalistico-borghesi, soprattutto quelli più avanzati sul versante scientifico-tecnologico, vengono gestiti e controllati non solo e non tanto attraverso i sistemi tradizionali della violenza legalizzata, cioè l'esercito e la polizia, quanto soprattutto ricorrendo alla forza persuasiva, omologante ed alienante della televisione e dei mezzi di comunicazione di massa.

Naturalmente, il discorso sulla violenza non è per nulla concluso, né può esaurirsi in un breve esame come questo, giacché si tratta di un tema talmente ampio, controverso e difficile, da meritare molto più spazio, molto più tempo, molto più studio e molto più ingegno di quanto possa fare il sottoscritto. Per quanto mi riguarda, ho cercato semplicemente di lanciare un input per far scaturire una riflessione iniziale.

giovedì 11 ottobre 2007

Differenze tra antisionismo, antisemitismo ed "antiscemitismo"

UN SOLO POPOLO E UN SOLO STATO

L'antisemitismo non è uno scherzo e non si può liquidare certamente con alcune freddure tanto stupide quanto inappropriate sull’ “antiscemitismo”, che non suscitano alcuna ilarità se non quella di qualche pennuto affetto da aviaria. Quando parlo di "antisemitismo" mi riferisco sia all'antisemitismo storico, convenzionalmente inteso, ovvero il comune, classico razzismo contro gli Ebrei, vittime dell'Olocausto compiuto dai nazisti, sia all'antisemitismo odierno commesso contro il popolo palestinese, anch'esso appartenente alla stirpe "semitica", anch'esso vittima di una politica di persecuzione e di aggressione imperialista, di atti sistematicamente ostili e terroristici, di veri e propri eccidi di massa, di cui ben conosciamo i responsabili. Il razzismo vero e proprio, il peggior "antisemitismo", non semplicemente ideologico, ma brutalmente politico-militare, è quello messo in pratica da coloro che rappresentano i veri criminali, assassini e terroristi, vale a dire il regime sionista di Israele e i suoi soci anglo-americani. Altrimenti, come si potrebbe definire la politica di persecuzione e sterminio portata avanti negli ultimi decenni dallo Stato di Israele con l'appoggio, più o meno tacito, degli USA, contro popolazioni inermi e non militarizzate che vivono nella striscia di Gaza? Rammento che una risoluzione dell'ONU, la 1544 del 19 maggio 2004, ha condannato le violenze israeliane in quella regione, chiedendone l'immediata cessazione. Ma, come tantissime altre risoluzioni delle Nazioni Unite, anche questa è stata disattesa e violata da Israele, che è il vero "Stato canaglia" del Medio Oriente. Ricordo che Israele possiede da decenni la bomba atomica, ma nessuno si è mai azzardato a condannarla o criticarla per questo, mentre si cerca di strumentalizzare in modo assolutamente pretestuoso la semplice volontà del regime iraniano (un regime indubbiamente tirannico ed oppressivo, che io non approvo affatto) di dotarsi di armi nucleari, così come hanno fatto in passato gli USA (che sono stati gli unici ad usare armi atomiche contro popolazioni civili, in Giappone, nell'agosto del 1945), l'ex URSS, la Gran Bretagna, la Francia, l'India e il Pakistan. Ricordo che il Mossad (il famigerato servizio segreto israeliano) era al corrente in netto anticipo del piano che prevedeva l’attentato dell'11 settembre 2001. Non a caso, in quegli edifici non si trovava nessun cittadino ebreo, in quanto pare che si fossero tutti messi in "malattia" proprio quel giorno! Non è strano che nell'elenco delle tremila vittime circa, sepolte sotto le Torri Gemelle non figuri alcun nome ebraico? (Inoltre, detto per inciso, le Twin Towers vennero abbattute in seguito all'impatto dei due aerei o, piuttosto, crollarono per effetto di un'implosione innescata volontariamente? Non sono soltanto io a chiederlo, ma lo ipotizzano da tempo anche numerosi esperti di ingegneria edile, e non solo.)
Se con l’orribile accusa di "difensore di criminali" si intende infamare chiunque si schieri a fianco delle popolazioni palestinesi, assolutamente inermi e non militarizzate, che vivono nella striscia di Gaza e sono massacrate senza pietà dalle truppe israeliane, ebbene sì, ammetto che quella definizione si adatta al sottoscritto. Così come mi ritengo uno strenuo difensore della causa e delle ragioni del popolo ebraico quando questo è stato ed è oggetto di razzismo, così come quando fu vittima dell'Olocausto, degli eccidi di massa nelle camere a gas, nei lager nazisti durante il secondo conflitto mondiale. Tale chiosa mi serve per spiegare ulteriormente la mia posizione in materia di "antisemitismo". Sarebbe tuttavia assurdo e complicato se cominciassimo a risalire indietro nel tempo, sino agli albori dello Stato di Israele, o addirittura più indietro, sino alla nascita e alla costituzione del movimento sionista internazionale. Un movimento che è stato (ed è tuttora) propugnatore irriducibile della causa ebraica più oltranzista, ed ha fatto ricorso anche a metodi, attività e pratiche terroristiche, che ancora oggi sono una prerogativa e una costante della politica di Israele e del sionismo internazionale. Dunque, mi limiterò (per il momento) a formulare una precisa, elementare, ma agghiacciante domanda: come mai chi difende a spada tratta lo Stato di Israele contro i suoi nemici e si adopera in tutte le maniere per denunciare ogni accenno di antisemitismo, non reagisce allo stesso modo, non si indigna minimamente, non si commuove neppure a compassione di fronte alle violenze, ai patimenti e alle sopraffazioni sofferte per lunghi decenni dal popolo palestinese, a causa di uno Stato il cui popolo ha vissuto per secoli le medesime ostilità e persecuzioni, in tutto il mondo, ma soprattutto durante la seconda guerra mondiale? La "diaspora" del popolo palesinese non merita lo stesso rispetto e la stessa considerazione che riconosciamo (giustamente) alla "diaspora" del popolo ebraico? Il genocidio del popolo palestinese non merita la stessa condanna, la stessa risposta e risoluzione, adottate rispetto all'Olocausto contro gli Ebrei? Nel contempo mi preoccupo di far presente che non sono affatto antisemita. Non sono antisemita in quanto non disprezzo, non perseguito, non insulto alcun popolo di origine semitica, sia che si tratti del popolo ebraico che di quello arabo, dato che non ho alcuna ragione personale, o di altra natura, per farlo. Invece, confesso di essere antisionista, nella misura in cui condanno con fermezza la politica di aggressione e di espansionismo economico-militare perseguita negli anni da Israele ai danni delle popolazioni palestinesi, sempre più confinate ed incalzate nella striscia di Gaza, costrette a subire quotidianamente stragi, persecuzioni e violenze d’ogni tipo da parte di truppe ostili ed occupanti.
Ho letto qualcosa a proposito di uno dei più grandi uomini della storia non solo ebraica ma universale, un vero ebreo socialista, laico ed antisionista: Martin Mordechai Buber. Il quale sosteneva che lo Stato di Israele, ancora lungi dalla sua nascita, non avrebbe dovuto assumere un'identità di tipo etnico-confessionale. Quest'uomo, dotato di buon senso, pensava alla costituzione di un'unico Stato che riunisse tutti i semiti presenti in Palestina. Invece, altri “padri fondatori” della nazione israeliana, di diversa estrazione politico-ideologica, hanno voluto ed imposto la formazione di uno Stato su basi etnico-religiose, strutturato in senso esclusivista e razzista. Tra i nomi dei leader sionisti che hanno contribuito alla creazione dello Stato israeliano come si configura oggi, è inevitabile citare: Davide Ben Gurion, capo dell'Hagamah, l'Agenzia ebraica sionista; Shamir e Begin, capo dell'Irgun, nonché la famigerata Banda Stern, descritte dai Britannici (e non dal sottoscritto) come vere e proprie organizzazioni terroristiche. In senso opposto si muoveva Martin Buber. Questi è ritenuto uno dei padri spirituali della patria e della nazione israeliana, un pò come il nostro Giuseppe Mazzini (scusate il paragone, forse un pò azzardato). E' stato uno dei più importanti filosofi del secolo scorso. Era di orientamento esistenzialista e socialista, ma dissentiva profondamente nei confronti dell'ideologia sionista. Martin Mordechai Buber era esattamente di nazionalità austriaca e di origine ebraica. Aderì inizialmente al movimento sionista internazionale, ma se ne distaccò molto presto, non appena si rese conto della vera natura di quel movimento, per aderire ad una filosofia di ispirazione esistenzialistica e socialista, e abbracciare la causa della convivenza pacifica tra i popoli in Palestina. Infatti, egli sosteneva che lo Stato di Israele, che si sarebbe formato nel 1948, non dovesse reggersi su un fondamento etnico-confessionale (come poi è accaduto), tanto meno di tipo oltranzista. Basti pensare ai vari gruppuscoli estremistici di destra e alle diverse formazioni politico-religiose integraliste, ben rappresentate nel Parlamento israeliano. Oppure si pensi solo al Likud, un partito di orientamento ultraconservatore, che costituisce la principale forza politico-istituzionale del paese, insieme al partito socialista. Per contro, Martin Buber pensava alla creazione di un unico Stato che riunisse tutti i popoli semiti in Palestina, Ebrei ed Arabi musulmani, per metterli in condizione di convivere pacificamente e di condividere, con pari dignità e pari diritti, le responsabilità della direzione e dell'organizzazione politica, economica e sociale di uno Stato non confessionale, ma laico e inter-religioso. Altro che "due popoli e due Stati": un solo popolo ed un solo Stato! Questa era la geniale, ambiziosa ma non utopica, in qualche modo "profetica" visione di Martin Buber. Invece, Ben Gurion, Begin, Shamir ed altri leader sionisti, moderati o estremisti che fossero, hanno pensato e partecipato alla creazione di Israele così come esso si struttura oggi: uno Stato ebraico di natura etnico-confessionale, con aspirazioni imperialistiche accentuate e prepotenti, ossia con una decisa predisposizione all'aggressività ed all'espansionismo verso l'esterno.
Restando in tema, voglio citare una frase che mi piace molto, per poi congedarmi. L'autore è sicuramente un ebreo, ma ignoto; tuttavia il senso del concetto è senza dubbio condivisibile da parte di tutte le persone dotate di buon senso. Ecco la frase: "Se tu scrivessi ebrei invece di israeliani, coinvolgeresti anche me che sono ebreo, ma non israeliano, e che sono antisionista". In questa felice affermazione è riassunta tutta la differenza semantica, politica e culturale tra i concetti di "antisemitismo" ed "antisionismo". Alcuni opinionisti “filoscemiti” e filosionisti di casa nostra asseriscono che Israele avrebbe fatto bene a violare le risoluzioni dell’ONU, compresa l'ultima in ordine di tempo, la 1544, al fine di proteggersi dai suoi nemici. Dunque costoro, come Israele, si auto-escludono dalle norme della legalità internazionale, dalla civile convivenza tra i popoli, per cui meritano solo parole di biasimo e disapprovazione.
Tornando alla questione dell’antisionismo, voglio ribadire la mia posizione nettamente contraria al sionismo come dottrina politica. Tuttavia, tale posizione non può essere confusa, se non in malafede, con l’antisemitismo, e tanto meno con il negazionismo. Bisogna ripudiare e condannare qualsiasi manifestazione razzista, contrastare ogni insorgenza nazi-fascista, rigettare tutte le idee e le opinioni che tendono a separare gli uomini e i popoli in “superiori” ed “inferiori”. Proprio per tali ragioni ritengo che l’assunzione del sionismo come base fondativa dello Stato di Israele abbia condotto a politiche persecutorie ed aggressive verso i popoli confinanti e soprattutto verso i legittimi abitanti della Palestina. Occorre proclamare con forza che lo Stato di Israele, fino a quando si definirà lo Stato Ebraico anziché uno Stato laico e non confessionale, sarà sempre uno Stato fondato sull’esclusione e sulla discriminazione religiosa e razziale. E’ necessario denunciare e riprovare le occupazioni e le aggressioni di Israele contro i popoli e i Paesi dell’area mediorientale, fino a quando lo Stato di Israele continuerà ad aggredire ed occupare territori altrui, violando le risoluzioni dell’ONU.
Infine, è molto importante saper distinguere tra ebrei ed israeliani, e parlare di “politiche aggressive di Israele e dell’esercito israeliano”, e non di Stato ebraico.
Shalom!